Semmai fosse sfuggita all’attenzione dei nostri lettori, riteniamo opportuno riprodurre la lettera di Enzo Mazza (Presidente della Fimi), pubblicata sul sito web de “l’Espresso”, e la replica dell’autore del contestato servizio giornalistico, Fabio Chiusi. No comment.
(a cura della Redazione di Italia Audiovisiva – A.) 27 febbraio 2012
Da Enzo Mazza, Presidente Fimi (Federazione Industria Musicale Italiana)-Confindustria, riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera. In calce, la risposta dell’autore dell’articolo, Fabio Chiusi (23 febbraio 2012)
Gentile Direttore, leggiamo con sconcerto e con forte irritazione le dichiarazioni rilasciate all’interno dell’articolo firmato da Fabio Chiusi dal titolo “Musica, la bufala delle major” dall’economista Michele Boldrin, al quale intendiamo replicare in modo serio e circostanziato. E’ falso e assolutamente denigratorio per l’industria musicale, affermare che vi siano imposizioni monopolistiche sui prezzi dei cd. Oggi, grazie ad un’offerta legale concorrenziale, ampia e diversificata, la musica la si può ascoltare, acquistare, fruire, in moltissimi modi. Fare un discorso solo di prezzi è riduttivo e poco lungimirante: oggi sia le novità come il catalogo sono vendute a prezzi diversi, dallo 0,99 ai 9,99 su internet, dai 9 ai 15 euro nelle rivendite tradizionali. Vi sono poi abbonamenti per lo streaming di musica online a prezzi bassissimi o il fenomeno di YouTube dove é possibile vedere milioni di videoclip gratuitamente pagati dalla pubblicità. Vi sono decine di ricerche oltre a quella della Fondazione Einaudi che confermano i danni dell’utilizzo di piattaforme illegali per scaricare musica o film o altri contenuti. Non c’è alcun collegamento tra l’uso del p2p e la propensione all’acquisto, anzi è esattamente il contrario. Altro punto assolutamente falso é che l’industria consideri una copia illegalmente come una mancata vendita. Come si evince dallo studio economico della società Tera Consultant, solo il 10 % di coloro che scaricano abitualmente in modo illegale, qualora si trovassero impossibilitati a farlo, acquisterebbero musica legalmente. Il fattore di conversione tenuto in considerazione é completamente diverso da quello citato dall’economista ed è falso affermare il contrario. Va anche sottolineato che lo studio Tera è addirittura molto conservativo. Altri studi danno rate di sostituzione (e quindi perdite) tre volte superiori. Mi chiedo se qualcuno abbia mai letto lo studio nel suo complesso prima di bollarlo solo come “di parte”. Credo di no. Le industrie creative dell’Unione Europea (cinema, musica, televisione e software) hanno offerto un contributo pari al 6,9% o a circa 860 miliardi di euro al totale del Pil europeo, con una quota del 6,5 % dell’occupazione totale dell’Ue, pari a circa 14 milioni di lavoratori. A causa della pirateria (e principalmente della pirateria digitale) le industrie creative dell’Unione Europea che hanno maggiormente subito l’impatto delle attività illecite (cinema, serie televisive, produzione musicale e software) hanno registrato perdite pari a 10 miliardi di euro ed un totale di 185.000 posti di lavoro in meno. Solo in Italia i danni sono stati di 1,4 miliardi di euro con 22.400 posti di lavoro perduti. Sulla base delle attuali proiezioni e in assenza di cambiamenti significativi ,le industrie creative dell’Unione Europea potrebbero subire entro il 2015 perdite pari a 240 miliardi di euro e 1,2 milioni di posti di lavoro in meno. Questi sono numeri, sono dati, è la fotografia di una realtà fortemente penalizzata dall’utilizzo illecito di contenuti digitali. Le opinioni vanno tutte rispettate ma non è accettabile infangare un’industria, quella musicale, che negli ultimi anni ha compiuto moltissimi sforzi per rispondere alle richieste di un mercato evoluto ed esigente, download, streaming, abbonamenti. Vi sono offerte per tutte le tasche e tutte con il comun denominatore di milioni di brani a disposizione. Non si può pensare che oggi la rete sia e rimanga un porto franco dove tutto possa essere condiviso e libero senza tutele: è sorprendente poi che un settimanale come L’Espresso, di un gruppo editoriale che non ha mai nascosto una sensibilità verso il mondo digitale, con attenzione ai new media e ad un nuovo modo di fruire di contenuti giornalistici ed editoriali in rete, dia spazio ad opinioni che hanno il solo obiettivo di denigrare un modello di business innovativo e che sta trovando anche riscontri sul mercato”.
Risponde Fabio Chiusi
Fa piacere che finalmente giunga una replica nel merito alle argomentazioni del professor Boldrin, dato che – chiesta al segretario Anica e al direttore di Confindustria Cultura per la stesura del pezzo in questione – avevo ricevuto in tutta risposta rispettivamente una risata e un paragone con i complotti sull’11 settembre. I dati forniti, tuttavia, non eludono la principale questione metodologica sollevata nell’articolo, e cioè che sia proprio la loro validità scientifica a essere in questione. Lo studio di Scialdone e Brini lo ha affermato già a giugno del 2011, e non mi risultano repliche formulate nello stesso tenore: ossia, fornendo argomentazioni che avvalorino i metodi degli studi – Tera incluso – citati nella replica del dottor Mazza. Da parte nostra, non c’era alcuna volontà di affrontare il tema con piglio ideologico: Mazza può chiederlo ai dottori Mancini e Del Giudice. Semplicemente, ho trovato più convincenti le argomentazioni e gli studi a supporto dei dati forniti dai suoi critici. Ogni lettore, poi, giudicherà autonomamente.