Nella querelle che vede contrapposti Viacom e Google-YouTube, la decisione in appello ribalta la sentenza di primo grado, ma sulla base di dichiarazioni di consulenti Google!
Una decina di giorni fa, la Corte d’Appello del Secondo Circuito degli Usa ha accolto l’appello della società Viacom nei confronti della precedente sentenza del 2010, con la quale il colosso Google-YouTube era stato scagionato dall’accusa di ripetuta infrazione ed incoraggiamento all’infrazione del copyright, da parte del colosso di Mountain View, mediante la pubblicazione e l’hosting di contenuti in violazione dello stesso.
Nella prima sentenza, della quale abbiamo anche discusso all’interno del rapporto di ricerca ”Italia: a Media Creative Nation”, YouTube non era stata condannata, in quanto il giudice aveva rilevato:
- che le segnalazioni di Viacom circa il materiale illegalmente caricato dagli utenti su YouTube avevano sortito pieno effetto, e gli stessi erano infatti stati rimossi in breve tempo dal celebre aggregatore video;
- che il procedimento di cosiddetta “notice and take down” adottato da YouTube è l’unica misura che possa essere correttamente adottata, a fronte dell’impossibilità di porre in essere controlli preventivi o simultanei al caricamento dei video da parte degli utenti;
- che, a differenza del precedente caso Grockster, i servizi di condivisione video offerti da Google su YouTube non fossero di per sè orientati alla condivisione illegale di video non autorizzati.
Tali risultati erano stati ottenuti dai giudici di primo grado tramite l’applicazione del c.d. principio del “safe harbour”, previsto dal Digital Millennium Copyright Act (Dmca, la normativa americana sul copyright in rete), previsione molto simile all’europeo “mere conduit”, in base al quale il fornitore di servizi di “hosting” non può essere riconosciuto responsabile per gli illeciti commessi dai propri utenti. Questo, tuttavia, a condizione che non sia dimostrato che lo stesso fornitore di hosting fosse a conoscenza degli illeciti dei propri utenti.
Proprio su quest’ultima affermazione, la Second Circuit District Court degli Stati Uniti argomenta che, come risulta da dichiarazioni degli stessi consulenti di Google interpellati in primo grado, YouTube stimasse la presenza di quasi il 90 % di contenuti illegali sui propri server, senza fare nulla per prevenire una così alta percentuale di illecito.
Peraltro, incalza la Corte d’Appello Usa, non è chiaro come, da una situazione di così marcato disinteresse per ciò che transita per la piattaforma si passi invece ad una “pronta e solerte rimozione dei contenuti”, dopo la segnalazione del proprietario dei contenuti/dei diritti di sfruttamento sugli stessi.
In base a tali argomentazioni, la sentenza di primo grado è stata annullata, e la Corte di Appello Usa ha rinviato il caso al Tribunale Distrettuale di primo grado, affinchè valuti con maggiore attenzione sia la consapevolezza di Google-YouTube della presenza di video illeciti sulla propria piattaforma multimediale, sia l’effettiva possibilità per la stessa società di porre in essere misure di controllo tecnico, per arginare il dilagare di fenomeni di violazione del copyright così estesi.
E’ naturlamente troppo presto per tracciare valutazioni finali sulla vicenda, ma va sottolineato che una decisione come quella adottata dalla Second District Court sembra ribaltare quello che è stato sinora il trend mantenuto dalle corti Usa, riaccendendo l’annosa questione sulla legittimità o meno di imporre ai fornitori di hosting controlli maggiormente pervasivi su ciò che gli utenti iscritti caricano sui loro server.
( a cura della redazione di Italiaudiovisiva – G. ) 20 aprile 2012