Un duro colpo per la pirateria: 27 siti pirata oscurati grazie all’operazione Crackdown

Mercoledì 24 aprile, dopo quattro mesi di indagini, a seguito di una denuncia partita da un piccolo operatore italiano, la Sunshine Pictures (casa di distribuzione del film d’animazione francese “Un Monstre à Paris”, tra gli altri), la Polizia Postale, ovvero il Compartimento della Polizia Postale e delle Comunicazioni del Lazio, ha messo in atto una “maxi-retata”, conclusa con l’oscuramento preventivo di 27 siti pirata, che mettevano a disposizione contenuti audio e video protetti da copyright. L’operazione “Crackdown” è scaturita a seguito della denuncia per sfruttamento illecito del diritto d’autore. I monitoraggi esperiti dagli investigatori del Compartimento hanno consentito di accertare l’esistenza di una vera e propria “piattaforma alternativa” ai servizi offerti dalle emittenti a pagamento e dall’industria cinematografica, con una disponibilità potenzialmente infinita di prodotti da offrire al pubblico, tra cui opere attualmente in prima visione nelle sale.

L’Ufficio Multimedialità della Siae, che ha collaborato attivamente al monitoraggio e agli accertamenti amministrativi, ha confermato che i siti oggetto di indagine non erano autorizzati alla divulgazione.

Le indagini hanno consentito di accertare che queste piattaforme web permettevano di visionare (in streaming o in download) circa 400.000 files relativi a film (alcuni attualmente nelle sale cinematografiche), oltre che di un numero molto superiore di prodotti audio e software diffusi in violazione del diritto d’autore. Specificamente è stata impedita la visione in streaming di oltre 15.000 titoli di film.

Un grande colpo dunque per tutti i parassiti della rete. La Società Italiana Autori Editori ha stimato si sia trattato di uno dei più importanti sequestri al mondo e certamente il più rilevante in ambito europeo. La maggior parte dei server delle piattaforme non autorizzate erano ubicati ai quattro angoli del globo nei più disparati Paesi (Australia, Usa, Belize, Cina, Russia, Moldavia, Romania, Olanda, Svizzera, Francia e domini in Usa, Seychelles, India, Australia, Svizzera, Panama, Regno Unito, Germania) e – come spesso accade – i domini erano ospitati in altri contesti ancora – definiti “paradisi web” – dove le normative in materia di pirateria sono molto meno restrittive.

Tutto questo ha ovviamente determinato complicazioni e problemi tecnici per la Polizia Postale, che ha comunque abilmente attivato un blocco dei Dns affinché questi domini non siano più raggiungibili dal territorio italiano (è stato costruito quel che si chiama una sorta di “muro invisibile”). Tra i siti incriminati emergono nomi certamente noti a chi pratica pirateria: nowvideo.com, videopremium.net, bitshare.com, cyberlocker.ch, nowdowload.co, eccetera.

Da segnalare anche che, sebbene la visione o il download dei film e di altro materiale fosse gratuito per il fruitore finale, i gestori di questi siti guadagnano dalla pubblicità, quantificabile intorno agli 90.000 dollari Usa annui per ogni sito.

Il danno apportato dalla pirateria all’industria creativa viene stimato da Siae (non viene però citata la fonte di queste quantificazioni, nella dichiarazione di Vito Alfano, Direttore dei Servizi Antipirateria della Siae, ma verosimilmente si tratta delle solite controverse valutazioni della Tara Consulting) nell’ordine di 1,5 miliardi di euro nell’arco di tre anni – di cui 800 milioni al settore cinematografico e 700 milioni a quello musicale – cui si aggiungono ulteriori 1,4 miliardi di euro per quanto riguarda il software. Complessivamente, si tratterebbe dunque di circa 3 miliardi di euro di mancati ricavi, un deficit che rischia di produrre, nel breve periodo, ovvero nel prossimo triennio, la perdita di più di 20mila posti di lavoro, soltanto nel mercato italiano. Dati su cui soffermarsi a riflettere (al di là di ogni possibile dubbio metodologico su queste quantificazioni). Purtroppo, come più volte ribadito su queste colonne, si continua a registrare la diffusa carenza di coscienza del danno provocato, da parte di chi scarica (e, ci piace sottolineare, non si tratta solo dei target più giovani!), ed ancor più la mancata consapevolezza del fatto che, se tutti agissero nella stessa maniera (copia tu che copio anch’io…), nel medio periodo si andrebbero ad esaurire i prodotti “da scaricare”, perché le industrie dei contenuti – audiovisivi o musicali – non avrebbero più le risorse necessarie da reinvestire nella produzione di nuove opere. Tema caldo dunque sul quale è indispensabile un intervento, in primis normativo, urgente e radicale.

Che la situazione italiana sia grave è confermato da ogni osservatore internazionale. E certo non basta la pur utile attività della Fapav, Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali (nuova denominazione della precedente Federazione Anti-Pirateria Audiovisiva). Peraltro, l’ultima notizia sul rinnovato sito web della Fapav risale al 16 aprile 2013, e non c’è traccia della notizia qui segnalata: un sintomo di un qual certo ritardo di “intervento”, anche sulla notizia, della Federazione…

L’Autorità italiana per le Garanzie nelle Comunicazioni, Agcom, ha annunciato nei giorni scorsi che tornerà a breve sul diritto d’autore online, del quale si comincerà a discutere a partire dal prossimo 24 maggio con un workshop, a Roma, al quale saranno presenti esperti nazionali e internazionali.

 

( a cura della Redazione di Italiaudiovisiva – E. ) 27 aprile 2013

 

 

 

 

Un endless game: Google “vs” editori della carta stampata. Parte terza: entra in gioco il Portogallo

Prosegue ormai da alcuni mesi la battaglia degli editori europei “contro” Google, che rappresenta senza dubbio l’incarnazione del “nuovo aggregatore” che rischia di degenerare in agente parassitario dell’industria mediale e culturale.

Ricordiamo che il periodo è particolarmente sfavorevole per gli editori di giornali e riviste in carta stampata… da una parte, la crisi dell’Eurozona che ha determinato una contrazione dei consumi (e quindi anche dell’acquisto dei giornali), dall’altro il passaggio epocale – talvolta drammatico – dalla carta al web. Si stima che nel 2012 abbiano perso il lavoro, in Usa, circa un terzo dei giornalisti della carta stampata.

E’ così che già dalla fine del 2012 gli editori (le loro associazioni) di alcuni tra i principali Paesi europei hanno fatto blocco contro il gigante della rete Google che, senza dar loro alcuna remunerazione, indicizzava i loro articoli.

Il primo Paese a raggiungere un traguardo in questa battaglia è stata la Francia che – ricordiamo – ha firmato lo scorso febbraio un accordo – definito “storico” – con “Big G”, ottenendo un fondo di 60 milioni di euro per contribuire alla transizione al digitale dell’editoria cartacea transalpina (poca cosa rispetto alle aspettative iniziali, ma comunque un riconoscimento del senso della battaglia).

Anche la Germania si era mossa proattivamente e agli inizi di marzo 2013 la proposta di legge nota col nome di “Google Tax”, avviata prima dell’estate, ha ricevuto l’approvazione (dopo quella del Bundestag) anche dell’Alta Camera tedesca (il Bundesrat). L’effettiva entrata in vigore della legge implicherebbe una remunerazione per l’editoria tedesca, da parte di Google, per gli articoli indicizzati sul servizio Google News (anche se sono stati successivamente esclusi dal pagamento gli “snippets” – frammenti – e i link). La regolamentazione della nuova legge è ancora oggetto di discussioni e trattative, ma senza dubbio si tratta di un risultato ben concreto.

L’editoria portoghese intanto sta attraversando la peggiore recessione degli ultimi 50 anni. E, probabilmente incoraggiata dai “precedenti” di Francia e Germania (la situazione tedesca è appunto in divenire), attraverso la Confederação Portuguesa dos Meios de Comunicação Social (Cpmcs) – la più grande e rappresentativa associazione di media portoghesi – ha deciso di andare anch’essa a bussare con decisione alle casse di “Big G”. E’ così che Alberico Fernandes, Presidente della confederazione lusitana dei mass-media, ha chiesto un incontro urgente con i leader del motore di ricerca di Mountain View. La richiesta avanzata dalla Confederazione s’è concretizzata, come prevedibile, in una remunerazione economica per l’indicizzazione degli articoli su Google News. Dal canto suo, Google ha fatto “orecchie da mercante”, anche se, come era già accaduto in Francia, ha fornito ai media portoghesi della Cpmcs piena disponibilità a cooperare per rendere più redditizi i loro contenuti, offrendogli quindi una boccata d’ossigeno in un momento di particolare criticità del settore: Google come facilitatore dei nuovi modelli di business: il terribile “parassita” che diviene benevolente “angel capitalist”?! Nei mesi scorsi, infatti, oltre a tagli e licenziamenti, molti editori portoghesi sono stati costretti alla chiusura e al fallimento. I “sopravvissuti” continuano quotidianamente a lottare contro il calo delle vendite che si associa al crollo degli introiti pubblicitari, in un terribile circolo vizioso. In questo scenario “apocalittico”, l’unico settore in crescita rimane – appunto – quello dell’editoria online, anche da un punto di vista pubblicitario. È così che l’editoria portoghese ha deciso di unirsi al coro delle associazioni di editori di molti Paesi europei per ottenere una remunerazione su quel fronte.

Nonostante Google abbia ribadito la propria intenzione a proseguire nelle negoziazioni, il primo incontro tra le parti si è concluso con una “fumata nera”, ma non si escludono futuri ripensamenti.

Alberico Fernandes ha spiegato all’agenzia stampa Reuters che i responsabili dell’area iberico-portoghese di Google, nella prima riunione (tenutasi a fine marzo), hanno respinto qualsiasi richiesta monetaria. Il Presidente della Cpmcs ha ribadito, in modo chiaro ed inequivocabile: “La nostra posizione non cambia: i contenuti che finiscono su Google News devono essere pagati”.

Decisamente più netto e radicale l’intervento di Francisco Pinto Belsemao, esponente di riferimento dei media portoghesi (a capo del gruppo lusitano Impresa), nonché Presidente dello European Publishers Council, che ha denunciato che i motori di ricerca sul web si appropriano, indebitamente, del 90 % dei profitti derivanti dalla pubblicità online, lasciando agli altri mezzi – che però ricoprono un ruolo determinante nella produzione dei contenuti che vengono veicolati – solo le briciole. Ha quindi aggiunto che i contenuti prodotti dai media (tradizionali) rappresentano una parte rilevante della fonte di quelle entrate, esortando quindi a porre fine alla “rapina” in atto.

Le parti coinvolte, ovvero il Cpmcs e Google, nonostante gli iniziali attriti, hanno comunque programmato di tenere ulteriori riunioni. Non resta quindi che attendere gli esiti del negoziato.

(a cura della Redazione di Italiaudiovisiva – E. ) 4 aprile 2013